giovedì 30 gennaio 2014

Comunicato stampa n. 2/2014

Villavallelonga (AQ), 30 gennaio 2014 - In occasione della Celebrazione del Ventennale di quello che oggi è diventata l’Associazione di Promozione Sociale D.F.P., saranno organizzate, nel corso del corrente anno, attività e progetti speciali (mostre, proiezioni, convegni, dibattiti, pubblicazioni, party, tributi ed eventi commemorativi) al fine di ripercorrere e rivivere i vari momenti artistici, culturali, musicali, fotografici, promozionali, ambientali e sociali che hanno contraddistinto l’attività associativa, il cambiamento e l’evoluzione della stessa e dell’intero contesto generale di riferimento, omaggiando, infine, i tanti Personaggi e Artisti che, nel frattempo, hanno ispirato il nostro personale linguaggio creativo.

…Dal 1994 al 2014, da due a 15 soci fondatori (circa), dalla cameretta alle pubbliche piazze passando per Philadelphia, dal 412732 allo smartphone, dalle musicassette ai files mp3, da Gioca e suona con Cristina alla play station, da Non è la Rai al Grande Fratello, dall’insostenibilità del debito pubblico e dei sistemi pensionistici nazionali alla crisi finanziaria internazionale, dalla lira all’€uro, dalla firma del Protocollo di Kyoto alle terre italiane avvelenate, dalle foto virtuali alle pellicole cinematografiche e ai Videoclip, dai copy book al blog, dal monopolio delle scene alle spicciole clonazioni…

Gli eventi organizzati permetteranno, inoltre, a chi non ci conosce, di avvicinarsi alle nostre finalità statutarie e, in generale, al mondo del volontariato.

Nel corso dell’anno, inoltre, l’Associazione effettuerà una valutazione delle attività, dei progetti e degli eventi organizzati sul territorio ai quali parteciperà a vario titolo, tramite il rilascio e la pubblicazione di un apposito rating etico.

Infine, per celebrare il grande compleanno, abbiamo effettuato un remix del logo che, concepito, alla fine degli anni ’90, ha già subito nel frattempo (parallelamente alla frenetica evoluzione tecnologica) alcune piccole modifiche, unitamente ad una serie inedita di simboli distintivi dei diversi campi di attività, ideati appositamente per la ricorrenza.

I nuovi loghi saranno inseriti nelle varie Locandine e Manifesti che faranno da cornice alle tante attività ed eventi commemorativi che saranno organizzati nel corso dell’anno e che saranno di volta in volta comunicati.

Per segnalarci eventi ed attività alle quali avete partecipato e che vi piacerebbe, magari, rivivere, oppure per proporre nuovi progetti ed idee creative potete contattare l’Associazione e contribuire in questo modo a strutturare la programmazione annuale.

Da ultimo, vi salutiamo con uno dei nostri slogan preferiti: “Per chi ha sempre avuto le idee chiare il programma di qualità è uno solo!”.


Lo Staff

Remix 2014 del logo

mercoledì 22 gennaio 2014

2070 battute: Orsi, lupi, camosci... Nei racconti di un Agente del Parco Nazionale d’Abruzzo

Racconto estratto dal libro di Leucio Coccia “Orsi, lupi, camosci... Nei racconti di un Agente del Parco Nazionale d’Abruzzo” – Pescasseroli, 1980. Il testo consiste in una raccolta di racconti pubblicati negli anni '50-'60 sulla famosissima rivista venatoria Diana, con la quale l'autore collaborava.

Il libro è disponibile al prestito e alla consultazione presso la Biblioteca Comunale.

Una seconda cattura di orsacchiotti

La cattura

Erano le 11 circa del 26 aprile scorso allorquando certo Antonio Bianchi da Villavallelonga, che nel bosco “Aceretta” trascinava a valle sulla neve un tronco di faggio, intravide, a non più di venti passi da lui, qualche cosa fra le piante che scompariva rapidamente dietro una bassa roccia. Spinto dalla curiosità, volse i suoi passi alla volta del punto dell’apparizione nella speranza di poter accertare qualcosa mediante la lettura delle eventuali impronte lasciate sulla neve. Giunto presso la roccia scoprì che sotto di essa si apriva un buco angusto e buio il cui fondo scendeva in senso leggermente obliquo, e che sulla neve vicina vi erano soltanto delle ormi somiglianti a quelle di piedini umani di neonato.

A tal vista il Bianchi chiamò alcuni suoi colleghi che si trovavano nei paraggi e, fatto loro osservare quanto da lui scoperto, con l’ausilio di essi, in numero di quattro, credette di potersi dare subito all’opera di cattura. Ma vi dovette, in un primo momento, rinunciare dato che, mentre infilava carponi l’angusto pertugio, l’incauto, e più che tale incosciente, ne venne bruscamente respinto da un minaccioso e più che mai cavernoso ringhio da fare arricciare i capelli a tutti i presenti e farli sbaragliare; segno eloquente che la caverna era abitata da una famiglia di orsi, madre e figli, poiché il maschio è completamente disinteressato all’educazione della prole.

Visto, però, che nessun essere vivente venne fuori dalla tana, la squadra dei catturatori, riavutasi dallo spavento e riacquistato il necessario sangue freddo, per provocare l’uscita della madre dal covile, ricorse al mezzo più sbrigativo e a portata di mano: adunò del frascame presso la caverna, vi appiccò il fuoco e, una volta bene acceso, ve lo spinse dentro. A questo punto l’orsa madre perse la calma e, fatto appello a tutto il suo coraggio per difendere la prole, si lanciò all’aperto come un bolide spargendo intorno a se legni accesi e terrore, minacciando paurosamente i violatori del suo domicilio, che fecero appena in tempo a schivare l’assalto; e non sarebbe andata liscia per essi se l’orsa, abbagliata dal fuoco e dall’improvvisa luce solare aumentata dal candore della neve, non fosse stata improvvisamente attaccata alle spalle da due robusti cani da pastore, incoraggiati dalla presenza del padrone e di tutti gli altri, e non fossero ricorse, come dirò in seguito, delle importantissime circostanze.

L’assalto dei cani e le grida di terrore emesse da tutti i presenti non sarebbero bastati a far allontanare il selvatico adulto dalla tana per compiervi la cattura dei piccoli, per cui, come gli stessi esecutori della temeraria impresa ammisero, essi debbono la loro salvezza non solo all’intervento dei cani ma principalmente allo stato di abbattimento in cui l’orsa versava e che solo in minima parte può attribuirsi alla mancanza del cibo per l’abbondante quantità di neve che ancora ricopriva la zona, o all’aver ceduto parte del suo vigore al nutrimento dei figli, ma la vera causa del fisico abbattimento dell’orsa va ricercata in una qualche malattia che da tempo doveva martoriarla. Inoltre non va esclusa, anzi va accolta con considerazione, l’ipotesi che il selvatico, all’improvvisa vista, della gente presso il suo rifugio, se ne sia allontanato per attirare su di se l’attenzione del nemico, e solo per ultima quella che il selvatico sia fuggito per mettere in salvo la propria pelle.

Percorso un centinaio di metri in discesa, affondando nella molle neve primaverile, l’orsa, sempre inseguita dai cani e da tre uomini, armatisi di tizzoni accesi, tentò un ritorno ma il caso volle che ciò avvenisse proprio dove una lunga stipa di frascame, aggrovigliato e ricoperto di neve, aveva formato una specie di barriera che non poteva essere superata da un essere stremato di forze.

A questo punto i tre uomini lanciarono i tizzoni contro il selvatico, il che lo fece desistere dal tentativo di riguadagnare la tana. Nel frattempo uno degli altri uomini rimasti presso la tana vi si introdusse e, uno per volta, ne trasse fuori due orsacchiotti che, caso strano, nonostante la loro tenera età, si ribellavano ferocemente a colpi di zampa, munite di unghioni sviluppati oltre il normale, e affondando i piccoli aguzzi denti nelle mani del catturatore tanto da farle sanguinare. La ragione della precoce ribellione e ritrosia, a mio parere (a quell’età gli orsi sono molto timidi e accolgono il nemico ritirandosi spaventati con le spalle al sicuro di qualche riparo ma senza tentare alcuna difesa), va ricercata nello stato bisognevole di nutrimento in cui versavano o per malattia congenita, poiché fra i tanti casi a mia conoscenza non ricordo che giovani della specie si siano, come questi, ribellati. Questa versione trova conferma nel raffronto fatto coi due congeneri, “Lecce” e “Turchio” d’indole bonaria, e con quella formulata dal Dott. Vincenzo Fazi, veterinario di Gioia dei Marsi, alle cure del quale gli orsetti vennero affidati per alcuni giorni, fino a quando cioè non si furono pressoché ristabiliti. Quegli uomini, a mio parere, sono stati temerari e inconsiderati poiché fra tutti non avevano altra arma oltre la scure, e debbono la loro salvezza al precario stato di salute in cui si trovava il selvatico.

Prigionia non sentita

Appena appresa la notizia della cattura, la Direzione del Parco mi affidò l’incarico dell’immediato ritiro dei due giovani prigionieri, che vennero a tenere compagnia a “Lecce” e “Turchio”, coi quali dividono ancora quotidianamente i pasti, le gioie e i... dolori.

I quattro cuccioli che, a giudicare dalle condizioni della loro detenzione, frequentemente e attentamente osservata, sono da ritenersi coetanei, avevano in comune soltanto il colore del pelame, tanto che a giudicare da esso sembrava appartenessero alla stessa cucciolata, ma la loro mole, e quindi il loro peso, differivano del doppio. Difatti, il peso dei primi due, alla data del 30 aprile, era di circa 5 kg ciascuno, mentre i secondi ne pesavano appena 2,500 circa. Il peso odierno (10 dicembre 1955) è: “Turchio” kg 32, “Lecce” 30, “Villa” e “Marcolana” 25. Ho già reso noto il modo a cui dovetti ricorrere per l’allevamento dei primi due, che mi dettero delle serie preoccupazioni, ma a confronto di quello resosi necessario per salvare “Villa” e “Marcolana” può considerarsi un divertimento e quasi mi meraviglio con me stesso per la felice riuscita dell’allevamento; la gran parte dei meriti, però debbo condividerla non solo col Dott. Fazi, ma anche coi miei due mai bastantemente lodati coadiutori, le guardie Del Principe e Petrella, la cui appassionata e intelligente opera mi è stata anche in questo caso di prezioso, valido aiuto. Se i primi due si rimpinzavano per generosa offerta di una cagna prima di una capra dopo, i secondi resero problematico il provvedere alla loro alimentazione dato che, non essendomi stato possibile trovare nelle vicinanze una cagna che potesse allattarli, essi, se avvicinati alle mammelle della capra, trattenuta a viva forza, distribuivano prodigalmente morsi e graffi tali da ridurre a brandelli i capezzoli. Inutili furono i tentativi di far prendere loro il latte con il biberon e simili, quali poppate fatte con zucchero e con miele, ecc., sicché si rese necessario ricorrere all’alimentazione forzata somministrando loro, con cautela, latte munto e addolcito ma facendolo ingozzare per forza. Per compiere questa operazione era indispensabile l’operazione di due persone una delle quali, presi con una mano gli arti anteriori del cucciolo, lo sollevava da terra e con l’altra lo costringeva a tenere la bocca aperta a mò d’imbuto; l’altra persona con un cucchiaio versava lentamente il latte addolcito e lievemente riscaldato nella bocca del riluttante. Nel contempo gli unghioni degli arti posteriori del cucciolo graffiavano energicamente, fino a farli sanguinare, mani e polsi di colui che, per loro bene, li tratteneva nella incomoda posizione. Questo lavoro durò una quindicina di giorni, non riuscendo diversamente a far prendere loro spontaneamente alcun cibo. Durante questo periodo le nostre mani e i polsi erano ricoperti di ferite. Ricorsi al miele puro, che le prime volte veniva ricusato, con la necessaria pazienza e costanza si riuscì a farli abboccare al dolce alimento che veniva servito col cucchiaio fino a quando cominciarono a leccarlo; poscia si passò alla bacinella, nella quale si cominciò ad aggiungere un po’ di latte, leggermente allungato con acqua, che veniva progressivamente aumentato inversamente al miele, che veniva sempre più ridotto fino a formare la miscela nelle volute dosi. L’aggiunta dell’acqua si rese necessaria in seguito ad accertamento, dall’esame delle feci, dell’eccessivo contenuto di grasso nel latte caprino per i giovani prigionieri. Alcuni giorni dopo, all’ora fissata per i pasti, essi reclamavano il latte, che ingoiavano con voracità non comune nella specie. Un mese e mezzo circa dopo si cominciò a somministrare lo stesso alimento che veniva offerto agli altri due, cioè latte addolcito con intriso qualche biscotto, giungendo a formare, lentamente, delle vere pappe che consumavano tanto volentieri che per evitare zuffe bisognò dividere le razioni. Ai biscotti si venne lentamente sostituendo la mollica del pane e alcune settimane dopo si aggiunse al pasto qualche patata cotta, indi frutta, verdura e così via aumentando la quantità di questi alimenti in opposto al latte, che veniva riducendosi fino a sospenderlo, del tutto il mese di agosto, cioè verso il settimo mese di età. Oggi viene dato loro pane, polenta, patate cotte, verdura cruda, frutta, ghianda, faggina, ecc., tutti alimenti che consumano molto volentieri. Finora non si è mai offerto carne e se qualche volta, a titolo di esperimento, è stata avvicinata, è stata palesemente ricusata. Il carattere dei quattro giovani ospiti diviene sempre più docile e quelli che ieri erano i ribelli sono oggi i più affezionati. Essi già riconoscono a distanza, sia alla voce che al fischio e perfino con l’olfatto, chi provvede alle loro cure, e lo accolgono con festosi uggiolii. Vivono vita comune e in buona armonia nella stessa gabbia ma, per evitare liti, al momento dei pasti è buona norma fare in modo che tutti consumino lo stesso cibo e ognuno la propria razione; diversamente romperebbero subito i rapporti di buona amicizia scambiandosi reciproche minacciose ringhiate e se l’uno non cede con le minacce il cibo dell’altro, passando senz’altri preamboli alle vie di fatto, avventandosi ferocemente l’uno contro l’altro. I rancori, però, sono di breve durata e una volta sfogata la momentanea ira riprendono subito dopo a rincorrersi per gioco facendo piroette e capriole nello spazio loro concesso dalla gabbia. “Turchio”, l’unico maschio, ormai riconoscibile anche dall’occhio del profano essendo il più sviluppato di mole, difetta, almeno pel momento, del benché minimo senso di cavalleria e, al contrario, essendo anche il più forte, abbonda di despotismo. Se portati all’aperto, tutti studiano la maniera per meglio dare sfogo ai loro muscoli correndo, saltellando, arrampicandosi per ogni dove e specialmente alle piante, ma la maggiore attrattiva è costruita dai cicli e dai motocicli che cavalcano in tutti i sensi da veri acrobati. La massima distanza che frappongono con l’uomo durante i loro giochi non supera i 40, 50 metri e se il custode, in vena di giocare anch’egli, si nasconde alla loro vista, viene naso al vento, premurosamente ricercato. I sensi, specie quello dell’olfatto, sono già abbastanza sviluppati. Con questi orsetti si può ancora tranquillamente giocare senza timore di essere offesi, e ciò finché ne hanno voglia, ma una volta stanchi o svogliati conviene rinunciare ai giochi se si vuole evitare la sbucciatura di qualche mano.

Quando, in passato, fra i visitatori vi era qualcuno che portava seco qualche leccornia per farne generosa offerta ai prigionieri, veniva da questi riconosciuto e festosamente accolto con uggiolii. Essi si indirizzavano, sicuri, verso il benefattore che distinguevano nettamente dagli altri. Dico in passato poiché, data l’esagerazione a cui alcuni si spingevano forse per accesso di generosità o, molto più facilmente, per vederli più lungamente giocare nella contesa della leccornia, portavano loro biscotti, caramelle, cioccolato, confetti e altri dolciumi, oggi la Direzione del Parco, onde evitare eventuali disturbi gastro-intestinali in conseguenza della abbondante indigestione di sostanze dolci, si è vista costretta ad allontanare ancor più il recinto di filo di ferro spinato per impedire che il pubblico si avvicini troppo alla gabbia dei goffi ma simpatici ospiti.
Sono con me, alla finestra del mio ufficio, tre dei miei quattro "pupilli"
In funzione di balia

domenica 12 gennaio 2014

Traduzione articolo del Washington Post

La Panarda: ristorante di Philadelphia ospita una tradizione secolare che è una maratona, ma non una gara

Di Domenica Marchetti

Philadelphia - Hahri Shin è il primo ad arrivare, a mezzogiorno, un’ora prima dell’inizio programmato della festa. È venuto attrezzato per l’occasione, indossando una tuta da ginnastica rosso brillante, una fascia bianca in testa e portando una bottiglia di Rolaids (ndt: pastiglie antiacidità).
L’occasione è la terza edizione annuale della Panarda, un banchetto di nove ore e 40 portate che si tiene a “Le Virtù”, un ristorante di South Philadelphia che si concentra quasi esclusivamente nel cibo abruzzese, regione dell’Italia Centrale.
In una domenica innevata di dicembre, 30 commensali che hanno pagato una quota di 250 $ si sono riuniti per gustare l’epico pasto preparato dal capo chef Joe Cicala e dal suo piccolo staff. Iniziata alle 13.41 con olive fritte ripiene di brasato di fagiano e finita intorno alle 22.30 con torrone tempestato di semifreddo al cioccolato e torta con mele sbriciolate in cima.
«È una maratona», dice Shin, programmatore di computer in una start-up di assistenza sanitaria, mentre gira nel ristorante proprio come le raffiche di neve all’esterno, «sono un ex Boy Scout. So che si deve sempre essere preparati».
Per alcuni, come Shin, l’obiettivo era di mangiare tutti i piatti saggiamente porzionati. Ad altri bastava semplicemente essere seduti in uno dei due tavoli preparati nella piccola sala da pranzo principale illuminata con luci soffuse.
«Entrambi i lati della mia famiglia provengono dall’Abruzzo» dice Nick Strarinieri, un avvocato dalla Contea di Montgomery, Pennsylvania. «Ho avuto un’emozione quando ho visto seppie in umido nel menù, era un piatto tipico di mia madre».
La Panarda è effettivamente una maratona, ma non del tipo mangia-tutto-quello-che-puoi-nel-minor-tempo-possibile, che puoi trovare alle fiere di contea o nei programmi sul cibo spazzatura, la festa è una tradizione secolare ricca di significato culturale, religioso e folkloristico. Ha ancora luogo in alcuni Paesi abruzzesi, soprattutto montani, dove gli inverni possono essere duri e un pasto celebrativo che richiede giorni di preparazione ha un fine diverso, per non parlare della comodità.
Storicamente la Panarda era organizzata dai nobili della città per le persone che avevano lavorato per loro, dice Francis Cratil, che con la moglie, Catherine Lee, è proprietario de “Le Virtù”. Era una celebrazione collettiva del raccolto, tenuta in un periodo dell’anno in cui avviene di solito la macellazione del maiale e quindi le dispense erano piene.
La prima Panarda documentata, nel 1657, ha avuto luogo nel Paese di Villavallelonga. Secondo la leggenda, una giovane madre di cognome Serafini lasciò un neonato nella sua culla mentre andava a prendere l’acqua al pozzo. Quando ritornò, la creatura era tra le fauci di un lupo. Lei pregò Sant’Antonio Abate, protettore degli allevatori di animali, e il lupo rilasciò il bambino illeso. La giovane donna promise di tenere un banchetto annuale in onore del Santo. (ndt: l’articolo contiene un errore: il miracolo della famiglia Serafini è quello dei diavoli mietitori. Quello del lupo è relativo invece alla “festa a foc”, della famiglia Bianchi).
Da allora ogni anno la famiglia Serafini tiene la Panarda a Villavallelonga il 17 gennaio, giorno della festa di Sant’Antonio Abate. Al di là della celebrazione religiosa e civile, dice Cratil, la Panarda è sempre stata, per certi versi, un atto di sfida, in linea con la natura dura e testarda degli abruzzesi.
«Si trattava di esorcizzare le difficoltà endemiche della vita in questi remoti Paesi d’Abruzzo» dice Cratil, il cui nonno proveniva da Castiglione Messer Raimondo, in Provincia di Teramo. «Le persone pensavano “finché abbiamo questa abbondanza, questo cibo nelle dispense, festeggiamo. Non abbiamo intenzione di mettere tutto da parte. Siamo ottimisti e ci godiamo l’abbondanza”»
È questo l’aspetto che ha affascinato Cratil. Quando “le Virtù” fu inaugurato, nel 2007, la sua sopravvivenza non era affatto scontata. Innanzitutto aveva aperto durante un periodo di recessione economica, inoltre si era impegnato a focalizzarsi sui cibi rustici di una regione che in pochi conoscono. «Molti pensavano che fossimo degli sciocchi» dice Cratil. Nel 2010 il capo chef, una donna di talento e di temperamento abruzzese, lasciò. Lo stesso Cratil era malato di cancro.
Alla fine dell’anno le cose iniziarono ad andare meglio. “Le Virtù” assunse Cicala, un nativo del District of Columbia che aveva lavorato da Galileo, da Cafe Milano e da Del Posto a New York. Il ristorante ottenne buone recensioni sulla stampa di Philadelphia. «Abbiamo voluto celebrare la nostra stessa sopravvivenza» dice Cratil, che era in ospedale durante la prima Panarda ma si riprese.
L’evento è ormai famoso e fa rapidamente il tutto esaurito una volta annunciato - di solito in meno di un’ora. Nonostante il prezzo alto, dice Cratil, il ristorante non trae profitto dalla Panarda. «Non guadagnamo un centesimo. La teniamo ogni anno come impegno verso la nostra missione».
Cicala, l’aiuto chef Brandon Howard e la pasticciera Angela Ranalli si preparano per quattro giorni per essere pronti all’evento di quest’anno. Il menù è stato fatto dopo una Panarda tenuta nel 1994 a Villa Santa Maria (CH) presso la rinomata scuola di cucina che ha formato alcuni dei migliori chef italiani. È stata organizzata in 10 “servizii”, per la maggior parte costituiti da quattro o cinque portate, con pause nel mezzo. L’evento segue un certo ritmo, con un andamento di pietanze che diventano gradualmente più sostanziose, poi più leggere, poi di nuovo sostanziose.
Sono stati presentati alcuni ingredienti tipici abruzzesi - frutti di mare per rappresentare la costa adriatica, lenticchie e fagioli coltivati nell’entroterra, un’ampia scelta di pasta, carni di maiale e agnello e formaggi di latte di pecora - tutto accompagnato con una selezione di vini della Cantina Frentana, un produttore abruzzese.
Tra le tante portate i piatti clou sono stati il brodetto di molluschi, un’abbondante pasta e fagioli, salumi fatti in casa e un ricco stufato di tenero agnello (agnello brasato) servito verso la fine del pasto che un commensale ha descritto come una “ninna nanna”. Ma la star della serata è stato il timballo di crespelle di Cicala, un enorme cupola di crepes salate a strati cotta al forno, con formaggio, polpettine, tenera carne di maiale e salsa.
Mentre la neve si accumulava all’esterno e il pomeriggio diventava sera, i commensali facevano tintinnare i bicchieri con un brindisi. Alcuni si alzavano per sgranchirsi le gambe o per controllare il risultato della partita Eagles-Lions, altri si avventuravano fuori a lanciarsi palle di neve tra una portata e l’altra.
Un gruppo di quattro persone è giunto all’incirca intorno all’undicesima portata (cotechino bollito con lenticchie) e è messo a mangiare in fretta per recuperare. Tra di loro c’era Daniel Chadwick, un gestore di un ristorante di Philadelphia, e suo fratello Jay, capocuoco all’Alba Restaurant. Erano rimasti bloccati sulla Interstate 76 ed avevano 10 ore e mezzo di ritardo, senza scoraggiarsi. «Qui è dove mi sono sposato», dice Chadwick, in parte abruzzese, «siamo rimasti coinvolti in due incidenti lungo la strada, ma non avevamo intenzione di perderci l’evento».
Con il pasto che volgeva al termine, gli irriducibili e i loro compagni di tavola volevano finire gli ultimi mozzichi di rosetta fritta e torta di mele. I brindisi finali erano stati scambiati e persone che si erano sedute come estranei o conoscenti si alzavano stringendosi la mano o abbracciandosi come amici.
«Il cameratismo con gli altri del mio tavolo ci ha aiutato ad arrivare fino alla fine» dice Shin. «La neve che cadeva ha reso l’esperienza ancora più speciale. È stata una notte che non dimenticherò mai».

Per avere informazioni sulla Panarda del prossimo anno, visitare www.levirtu.com o chiamare il 215-271-5626. Marchetti è autrice di diversi libri di cucina: l’ultimo è “The Glorious Vegetables of Italy” (Chronicle Books, 2013).

Traduzione e adattamento: Achille Ferrari
Supervisione: Anselmo Lippa

Comunicato stampa n. 1/2014

La Panarda di Villavallelonga sul Washington Post

Villavallelonga (AQ), 13 gennaio 2014 - Ha destato molta eccitazione e grande stupore la pubblicazione, da parte dell’autorevole quotidiano statunitense Washington Post, di un interessante articolo sulla Panarda, l’antichissimo banchetto devozionale che si tiene annualmente a Villavallelonga la notte del 16 gennaio.

Il Washington Post, fondato nel lontano 1877, è il più diffuso e antico giornale di Washington. L’articolo, pubblicato lo scorso 31 dicembre e successivamente ripreso nelle sezioni “Food” e “Travel” di altre importanti testate americane, è stato scritto dalla giornalista di madre italiana Domenica Marchetti e prende spunto dalla curiosa iniziativa del ristorante “Le Virtù” di  Philadelphia di proporre nel proprio menù i piatti tipici del tradizionale banchetto commemorativo abruzzese.

La rivisitazione della Panarda da parte del rinomato ristorante specializzato nella cucina tipica abruzzese e dell’Italia Centrale, giunta quest’anno alla terza edizione, prevede un pasto di nove ore e 40 portate, al prezzo di 250 dollari e  permette ai clienti di cimentarsi in una variegata e lunga maratona gastronomica accompagnata da una selezione di vini abruzzesi.

Il tradizionale e antichissimo banchetto della Panarda di Villavallelonga, definito anche da alcuni antropologi “orgia alimentare” e in generale i festeggiamenti in onore di Sant’Antonio Abate, stanno riscuotendo, nel corso degli anni, notevole interesse a livello nazionale e internazionale da parte di studenti universitari, storici, antropologi, trasmissioni televisive nonché l’attenzione dell’Unesco che, da qualche anno, ha avviato il lungo e difficoltoso iter istruttorio per il riconoscimento, della Panarda, come Patrimonio Immateriale dell’Umanità.

La festa di Sant’Antonio Abate, che si celebra annualmente a Villavallelonga il 16 e 17 gennaio, si articola, infatti, in un sistema rituale piuttosto complesso e ricco di simbolismi (maschere, Pupazze, cesti, Corone, fuochi, Cottore, carri allegorici) che può essere esaminato da molteplici prospettive e nel quale i vari aspetti si intersecano sia a livello funzionale che di valori ma che trova il suo momento principale nella Panarda, alla quale ognuno partecipa in un clima di eccezionale solennità, ritenendosi responsabile ed obbligato a mantenere viva una tradizione che appartiene al comune patrimonio culturale.

Fa sorridere l’idea che, oltreoceano, si mantengano così vive certe tradizioni, magari trasformandole nel corso degli anni in veri e propri “prodotti commerciali di successo”. Come affermano i proprietari del ristorante “Le Virtù”, nonostante il prezzo pagato per partecipare alla maratona sia piuttosto alto, il guadagno non è l’obiettivo principale dell’iniziativa, quanto di offrire ai partecipanti la possibilità di sentirsi parte di una devozione e di un’italianità che tutti sentono l’obbligo morale di rievocare e di far conoscere alle giovani generazioni e ai figli degli emigranti l’autenticità delle proprie radici.

La traduzione Italiana dell'articolo è consultabile qui.


Nicola Di Ponzio, Achille Ferrari - Associazione D.F.P.

Preparazione della Panarda - Foto: Paolo Simoncelli

Canti e Suoni visitano le Panarde - Foto: Paolo Simoncelli